TFR in busta paga. Come farla diventare una buona idea.

Sono possibilista su tutto. Raramente dico no a prescindere, e solo su questioni che riguardano altissimi e incontestabili diritti naturali. Quello del TFR in busta paga, ad esempio, può non essere una cattiva idea, a patto che si risolvano alcuni nodi.

Intanto il TFR (al contrario, ad es. dell’articolo 18) non esiste in molti Paesi d’Europa, ad esempio nella Germania-farodeuropa. E lo vivo da sempre come l’imposizione di uno Stato molto paternalistico, che parte evidentemente dal presupposto che la gente non sappia come spendere il proprio denaro, e quindi la si obbliga a risparmiare una quota del proprio stipendio, opportunamente custodita dalle imprese. Che, invece, saprebbero sempre come investire (uhm) al meglio i risparmi dei loro lavoratori. Si realizzerebbe quindi in teoria, per via legislativa, un equilibrio perfetto. Ma, appunto, solo in teoria.

E’ indubbio inoltre che siamo in una fase del ciclo economico caratterizzato da cronica mancanza di liquidità, sia riguardo alle imprese che ai consumatori, e ogni cosa che finisce in busta paga ha un effetto benefico. Certo da solo non basta a garantire un effetto moltiplicatore che possa avere una qualche ripercussione positiva sul PIL, perché la quantità di risorse a disposizione non è la sola variabile in campo nelle decisioni di acquisto del mercato. Per dirla in breve, se ho più soldi in tasca ma temo di perdere il lavoro, destinerò il surplus al risparmio, o alla riduzione del mio indebitamento complessivo, piuttosto che al consumo. In questo caso l’effetto positivo sarà molto rimandato nel tempo (non sono d’accordo che non ci sia del tutto, come pure sento dire in giro).

Ovviamente la prima obiezione che viene in mente è che, posto che gli effetti per i lavoratori sarebbero positivi, le imprese, anche loro alle prese con una pluriennale crisi di liquidità, sarebbero strozzate da una normativa che imponesse loro un esborso immediato senza ricevere in cambio un almeno pari aumento di produttività.

La soluzione, ovvia, è quindi quella di sostituire il debito nei confronti dei dipendenti (che di questo si tratta, dal lato dell’impresa), con un debito nei confronti del sistema creditizio. Sistema creditizio che mai nella storia come in questo caso, può attingere a finanziamenti praticamente a tasso zero da parte della Banca Centrale e, semmai, avrebbe il problema di come impiegare fruttuosamente il denaro. E qui viene la risposta delle Banche, le quali a loro volta sono alle prese con un tasso di morosità e di insolvenza altissimo, e hanno da tempo tirato i remi in barca riguardo all’impiego in operazioni rischiose, preferendo i lidi tranquilli dell’impiego in altri strumenti finanziari.

Spetta quindi al Governo sciogliere la riserva delle banche, garantendo in qualche modo (non diversamente, peraltro, da come già fa adesso riguardo alle imprese fallite o insolventi, ad esempio), che l’accollo del debito per TFR delle imprese sia praticamente privo di rischi. Almeno per un lasso di tempo sufficientemente ampio ad assorbire le ripercussioni negative che il cambio di sistema avrebbe se no si guidasse il cambiamento. Il tasso di interesse che le banche praticherebbero, infine, non dovrebbe essere di molto dissimile al tasso di rivalutazione che le imprese sono obbligate a considerare al momento della liquidazione.

Riuscirà il governo a mettere in piedi un sistema del genere?

Qui riservo parecchi dubbi, e sarei positivamente impressionato se, per una volta, il governo riuscisse a far cooperare insieme diversi attori dell’economia italiana per registrare al meglio un sistema che per molti versi, si rifà ad un modello economico che è ormai soltanto un pallido ricordo.

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